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domenica 24 marzo 2013

Qual è la vostra migliore offerta?


“In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico “.È partendo da questa enigmatica citazione che si snoda l’intera trama del nuovo film di Giuseppe Tornatore (La migliore offerta). Una storia questa, simile ad un marchingegno ad orologeria, ricca di dettagli minuziosi, che rendono il film una succulenta e solleticante sfida per chi lo vede. 
“La migliore offerta” non è il classico thriller, nè la classica storia d’amore; è frutto di un travolgente ed anticonformista meccanismo, pieno di ingranaggi che si innescano e di interrogativi che si pongono. Il protagonista assoluto è il sessantenne solitario, battitore d’aste Virgil Oldman (un accattivante Jeoffrey Rush), altezzoso e pieno di manie, evita i contatti con chiunque al mondo, tranne che con l’amico Billy (Donald Sutherland), che lo aiuta ad incrementare la sua eccelsa collezione di rarissimi ritratti di donne. 
Il film gioca sul rapporto tra verità e finzione, tra ciò che appare e ciò che è; il signor Virgil è il più esperto nel riconoscere la falsità di un’opera d’arte, ma nella vita reale risulta carente di questa dote: ” I sentimenti umani sono come le opere d’arte; si possono simulare “. 



Il secondo personaggio è Claire Ibetson (Sylvia Hoeks), la misteriosa donna che riuscirà ad attrarre inverosimilmente il signor Oldman. Anche lei ossessionata dal mondo esterno, affetta da agorafobia, vive auto-reclusa nella sua stessa villa, dove Virgil sta iniziando l’inventario dei mobili antichi. Il fatto di non poterla vedere fino a circa metà pellicola, incuriosisce lo spettatore, nel quale nasce immediato il desiderio di veder svelata l’identità della donna, celata dietro il suo velo di mistero, parallelamente all’ormai infatuato Virgil, che per la prima volta in vita sua, si sente attratto da una persona.
Esperto di arte ma non d’amore, chiede consiglio all’artigiano Robert (Jim Sturgess), che lo aiuterà nell’opera di seduzione della ragazza. Un’attraente trasformazione quella di Oldman nel corso del film, che può essere paragonata al naturale processo di innamoramento, mascherato però dalla singolarità dei caratteri, ed insolitamente avvolto da tinte fosche, quasi gotiche, che accentuano il fascino noir della sceneggiatura. Il regista si lascia attrarre dalla particolarità di certe ambientazioni, come l’enorme e sfarzosa villa dove vive reclusa Miss Claire, o l’eccessiva, lussuosa abitazione di Virgil, con tanto di camera blindata dove cela gelosamente i suoi svariati ritratti. 

Tornatore sceglie peraltro una location particolare: un non-luogo, ambientando la sua storia al di fuori del tempo e dello spazio, districando le tumultuose vicende dei personaggi sullo sfondo delle più disparate città mitteleuropee; Vienna, Praga, ma anche Trieste, Roma, Milano ed altre ancora, accentuando il carattere straniante e difficilmente inquadrabile della pellicola; girata in lingua inglese, ma di produzione italiana.
 
Finale amaro, scioccante, assolutamente imprevisto, ma di forte impatto emotivo, che si apre a varie interpretazioni. Ci si sente vicini al povero Virgil che, finalmente, in un modo assai distorto e devastante, ha anche lui assaporato, come tutti noi, le sofferenze dell’amore, abbassando le barriere che aveva posto tra se stesso e il mondo.



DadaB.

sabato 23 marzo 2013

La leggenda del pianista sull'oceano



Uno squarcio di luce; piomba nel bel mezzo di un’uggiosa giornata di pioggia. Decido di vedermi un film, ma non un film qualunque. Un film che racchiude una storia. Così come un’ostrica ha al suo interno una meravigliosa perla da custodire gelosamente, la storia che sto per raccontarvi parla di un uomo, dell’epica storia di un uomo “ che poteva fare tutto, tranne che essere ordinario”.
Si chiamava Danny Boodman T.D. Lemon Novecento. Ma era conosciuto come Novecento; il secolo in cui era nato. Era un candido musicista autodidatta, che visse la sua intera esistenza a bordo di una nave. Per scelta forse, o per paura, Novecento decise che la sua musica sarebbe stata più apprezzata lì, sul Virginia, che dovunque nel mondo. Era quello il suo rifugio, la sua grande casa, che lo accolse senza riserve, mostrandogli, anno per anno, un pezzo di umanità, che saliva e scendeva, periodicamente. 
Tratto dal monologo teatrale Novecento di Baricco, la storia che Tornatore ha saputo reinterpretare cinematograficamente, è struggente e poetica. Una miriade di sensazioni, una dopo l'altra, agguantano i sensi del pubblico. Scoperta dopo scoperta, la curiosità di ognuno vuole sapere di più sulla vita di quel meraviglioso ed umile uomo; sulle sue note, sulle sue melodie oniriche, che sembrano venirgli da dentro, senza il bisogno di uno spartito. Una semplicità che tocca i cuori; il volto è quello di chi non ha mai vissuto, e insieme di chi ha capito già tutto. Il rifiuto di scendere dalla nave e di restarvi per sempre può essere visto come un atto di codardia, ma il  monologo finale non lascia repliche. Le lacrime scendono a fiotti perché nel profondo sappiamo che Novecento ha ragione; che è migliore di tutti noi essendo l’unico, forse, a tenere davvero fede ai suoi ideali; scegliendo di non scegliere, e quindi di non sbagliare, di non mettersi in gioco in quell’oceano infinito, con decisioni infinite, che è la vita. Novecento rifiuta, quasi inconsciamente, di essere convenzionale: di sposarsi, avere figli, una famiglia. Anche la fuggevole apparizione di una donna angelicata, dai biondi capelli, che lo guardò rapita una volta, dopo aver ascoltato quelle note, non lo spinse a scendere i gradini che lo separavano dalla terraferma. Fin da subito egli ha capito che il suo posto era lì, in quella nave così grande, ma così giusta per lui, tale da contenere i sogni e i desideri di poche persone per volta. 
In questa scena finale è racchiusa l’essenza dell’intero film; lascio a queste parole l’occasione di impressionarvi.




Regia: Giuseppe Tornatore
Cast:  Bill NunnTim RothPruitt Taylor Vince

sabato 16 marzo 2013

Un'autentica follia!




Un Oscar guadagnato grazie alla straordinaria interpretazione di Jennifer Lawrence, “Il lato positivo” è un film scintillante, che se ne esce con 8 candidature agli Academy Awards; quattro delle quali per gli attori. Il titolo originale tradotto “L’orlo argenteo delle nuvole” è tratto dal romanzo di Matthew Quick. Mentre il film è diretto da David O. Russell (The fighter), che dirigendo questa tragicommedia, maneggia argomenti seri, ma li rende quasi spassosi; alternando gags comiche, in cui si destreggiano gli impeccabili attori, a momenti di riflessione e gravità.
Pat Solatano è affetto da bipolarismo. Dopo otto mesi di reclusione per aver tentato di uccidere l’amante della moglie, viene portato a casa dalla madre (Jacki Weaver); tenuto sotto ingiunzione restrittiva e con l’obbligo di una terapia. Pat desidera riconquistare Nikki e farle conoscere la sua nuova visione del mondo, da lui chiamata “Excelsior”, in grado di fargli trovare il lato positivo di ogni situazione, anche della più tragica. È un film di equilibri precari, di dramma e comicità appese al filo della pazzia di Pat. Ma in fondo ogni personaggio sembra nascondere una vena squilibrata: il papà (un bravo Robert de Niro), dopo aver perso il lavoro, si butta maniacalmente sulle scommesse sportive fino a perdere il controllo. Banali episodi quotidiani si intrecciano con risse tra padre e figlio, scatti d’ira, urla, incursioni notturne di Pat nella camera dei genitori, frignando su quanto ingiusta sia la vita. Tra citazioni di Hemingway ed una follia sempre pronta ad avere il sopravvento, Pat incontrerà Tiffany, la sua àncora di salvezza. Un’eccentrica ragazza, distrutta dopo la morte del marito, che reagì alla cosa imbottendosi di farmaci ed antidepressivi, e facendo sesso compulsivo con i suoi colleghi di lavoro. Tiffany e Pat hanno questo in comune, la pazzia. “ Il solo modo di assecondare la mia pazzia, era di fare qualcosa di pazzo tu stessa. “ Recita Pat alla fine del film. Sono due anime gemelle, due disillusi, che sentono il bisogno di un qualche riscatto, una terapia, una strategia per salvarsi, per aggrapparsi a qualcosa, e sfuggire al baratro della malattia. La soluzione si materializzerà nell’impegno e nella perseveranza che i due spenderanno per una gara di ballo, che li aiuterà a trovarsi, e a dimenticare i rispettivi problemi. “Il mondo ti spezza il cuore in ogni modo immaginabile”; con queste frasi schiette e taglienti, i due protagonisti si mostrano per quello che sono: nevrotici e pieni di paure, si dicono ciò che provano in faccia, senza filtri, senza maschere: sono autentici. Il film fa perno proprio sulle preponderanti performance degli attori: si fa notare con forse la sua miglior interpretazione, un Bradley Cooper che abbandona le “notti da leoni” per confrontarsi con un personaggio difficile e malato, valso all’attore la sua prima candidatura. Tra un doppiaggio italiano incapace di rendere appieno la sfumatura vocale dei personaggi, caratterizzati da dialoghi molto frequenti e forse troppo retorici e prolissi, la seconda parte del film rischia di cadere nella banalità; tra una gara di ballo tutta luccicante sullo stile di “ballando con le stelle”, ed un bacio strappalacrime un po’ scontato. Tra alti e bassi, è un film che dà carica e che, in fin dei conti, non dispiace. Che mette a nudo la malattia mentale e la sradica dalla convenzione, rendendola quasi appassionante e veritiera. “Il lato positivo” potrebbe dividere, far sorridere e riflettere il pubblico, ma non deluderlo. Una “pazzia” non andarlo a vedere!


martedì 12 marzo 2013

Mi sento infinito.



Come recita il famoso detto "non giudicare un libro dalla copertina", non bisogna mai fermarsi alle apparenze; soprattutto se si tratta di un film come questo. Il titolo incuriosisce, ma scoraggia chi di queste frasi ne ha già sentite tante: "Noi siamo infinito" all'apparenza potrebbe deviare la curiosità del pubblico. La trama sembrerebbe quella di una commedia adolescenziale, ma ciò che non sapete, è che di contenuto banale o scontato, ne ha ben poco. Il titolo originale "The perks of being a wallflower", è tratto dal romanzo dello scrittore Stephen Chobsky autore, ma anche regista, dell'omonimo film. Ad incuriosire non è solo il contenuto della pellicola, ma anche il cast: una brillante ed esuberante Emma Watson, (La famosa Hermione, amica del maghetto Harry Potter) in vesti totalmente nuove e libertine. Interpreta un'adolescente in cerca di una propria identità e dimensione nel mondo, a volte troppo impulsiva ed incline a prendere droghe o a frequentare ragazzi che non la meritano. Farà perdere la testa al piccolo Charlie, (Logan Lerman) il vero protagonista della pellicola, un adolescente timido ed impacciato; incapace di integrarsi con i compagni, vive in un mondo tutto suo, fatto di musica e di libri. Una persona umile e genuina in cui molti adolescenti potrebbero riconoscersi. La sua non è una storia semplice: traumi legati alla sua infanzia lo perseguitano. Sepolte storie di violenze, tra cui il suicidio del suo migliore amico, lo seguono come fantasmi, rendendolo preda di allucinazioni e di tendenze autolesioniste. La sua vita cambierà con l'incontro di Sam (la Watson) e del fratellastro Patrick (Ezra Miller), che lo accoglieranno nella loro cerchia di amici, facendogli riscoprire i valori dello stare insieme, del condividere, del cercarsi e del desiderio, tipico di chi sta crescendo. Un film che tratta temi difficili, (per questo contestato) come la droga, il sesso, il suicidio, l'omosessualità; tutti visti dagli occhi ingenui e spavaldi di chi ha tutta la vita davanti. Pellicola toccante e profonda, che fa riflettere, una medicina per chi ha bisogno d'aiuto e non può parlarne, come Charlie. Una straordinaria metafora dell'amicizia, dell'amore, della fratellanza; sentimenti descritti abilmente e che non annoiano, ma che toccano nel profondo. La scena del tunnel, con sottofondo "Heroes" di Bowie, il vento tra i capelli, innesca nello spettatore un'inesprimibile spinta verso la vita, una voglia di libertà e di leggerezza, anche grazie al monologo finale di Charlie, che guardando i suoi amici sussurra: "Mi sento infinito." A volte ci sentiamo tutti un po’ infinito, e questo film senza dubbio ci insegna a riscoprire questa parte di noi; sopita per chi ormai adulto, o ancora inespressa per chi si trova in età adolescenziale.

dadaB.

venerdì 1 marzo 2013

Anna Karenina. Dramma classico, in chiave post-moderna



L'idea di un nuovo adattamento cinematografico di Anna Karenina, non si direbbe certo una novità. Anzi è probabilmente un rischio confrontarsi con le molteplici riproduzioni dell'opera, che spaziano dal cinema alla televisione, senza tralasciare le più famose ed impeccabili interpretazioni di Greta Garbo e Vivien Leigh. Ma il regista Joe Wright ha voluto osare, decidendo di cimentarsi in un'impresa in grado di tener testa alla concorrenza. Di certo non azzardata la scelta del cast, Wright è andato sul sicuro scegliendo, per interpretare Anna, una ben nota, forse troppo, attrice del cinema hollywoodiano: Keira Knightley. Di certo trovare un volto nuovo e più esotico sarebbe stata una scelta rischiosa, ma anche più accattivante e stimolante, non solo per il pubblico. Ma nulla di ciò toglie alla Knightley un viso perfettamente adatto per vestire gli svolazzanti e principeschi panni della mondana nobildonna russa, (valsi un Oscar alla costumista Jacqueline Durran), dotata di una bellezza e di un fascino eccezionali, come ben ricordano i lettori del romanzo. Un'interpretazione però, che non colpisce nel segno. Recitazione impostata: la Knightley sembra incapace di rendere appieno le sfaccettature del carattere instabile di Anna, l'alta statura drammatica del personaggio, il suo processo di destabilizzazione mentale, la gelosia, gli incessanti tormenti e le manie di persecuzione. Molto più azzeccata la scelta dell'interprete maschile: Aaron Taylor-Johnsonn sembra incarnare perfettamente la figura del fascinoso e temerario conte Vronskij, del quale Anna si innamorerà perdutamente. Infine un Jude Law irriconoscibile. Si impone come una nuova sfida per l'attore interpretare i panni del noioso ed abitudinario Aleksej Karenin, marito dell'infedele Anna.


Ma veniamo alla vera novità della pellicola. Wright dà all'intera opera un'impostazione "teatrale". Fin dalla prima scena lo spettatore vede aprirsi un vellutato sipario rosso scarlatto, che sarà preludio dell'intero dramma. Una trovata fuori dagli schemi, eccentrica, con la quale il regista scrolla di dosso da Anna Karenina qualsivoglia impronta di classicità, sradicandola dalla convenzionale narrazione cinematografica, ma forse osando troppo. Ci si chiede se il vero protagonista non sia proprio il palcoscenico, insieme alle sfarzose ed eleganti scenografie, che distraggono dalla narrazione e dalla psicologia dei personaggi, dai loro drammi e sentimenti; che potevano esser portati fuori nudi e crudi dagli attori, con semplicità e spogli dall'eccessiva sontuosità del tutto. Nonostante questo inizio un po' caricaturale, con movimenti studiati e coordinati tanto da far pensare ad un musical, si tira un sospiro di sollievo con l'avanzare della pellicola. Wright non dimentica certo l'importanza dei punti fermi del romanzo tolstojiano: gli immortali temi dell'amore, della gelosia, e del tradimento; di una donna giudicata e manipolata dall'impietosa società della Russia ottocentesca, fatta di regole ferree ed imposizioni, che spingeranno Anna - costretta a scegliere tra i doveri coniugali ed il vero amore - alla disperazione più totale, alla separazione dal figlio, ed infine al suicidio. Sono inoltre frequenti i rimandi alla preponderante figura del treno a vapore, protagonista di quell'epoca, ma anche della scena. Il treno sarà anche l'unica via di fuga per Anna, una donna ormai disperata e priva di speranze per un futuro migliore.

 Il regista lascia spazio al forte carisma di quest'eroina non convenzionale, ed al suo rapporto tormentato e passionale con il conte Vronskij. Una relazione per certi versi classica, che rimanda al leggendario dualismo amore\morte, al desiderio quasi infantile del vero amore, considerato allora "un'illusione del vecchio ordine."
Anna Karenina e' senza dubbio uno dei caratteri più memorabili della storia della letteratura, che in queste vesti tutte nuove e scintillanti non annoia minimamente, e dà piacere vederla reinterpretata, ma forse farà storcere il naso ad alcuni lettori, ormai troppo legati alla stesura originale e classica del romanzo di Tolstoj.


DadaB.

Un comico, isterico, nevrotico, spassoso, cinico dramma!

Pensiamo ad un film. Prendiamo quattro attori ed ambientiamolo interamente all’interno di un piccolo appartamento newyorkese a Brooklyn. Sarebbe poco credibile certo, ma la maestria, l’eccellenza, e l’acutezza d’ingegno del grande Roman Polanski lo rendono un piccolo capolavoro.
Carnage” è una delle commedie più brillanti, satiriche, ironiche, nevrotiche ed attuali che si siano mai viste al giorno d’oggi.
Una serie di elementi l’hanno resa tale; a cominciare dall’eccellente cast di spicco, dalle impeccabili performance di ognuno dei quattro attori protagonisti e da una valida base di partenza: la commedia teatrale di Jasmina Reeza chiamata ” The God of Carnage ” (Il Dio del Massacro), sulla quale Polanski si è basato per farne un film.
L’intera vicenda si snoda partendo da un singolo episodio; ossia quando il figlio dei coniugi Cowan (Kate Winslet e Christoph Waltz), colpisce con un bastone quello dei Longstreet (Jodie Foster e John Reilly), causandone uno sfregio al volto. Le due coppie si incontrano così nell’appartamento dei Longstreet per discutere civilmente dell’accaduto e prendere i dovuti provvedimenti. Ecco quindi filmati gli iniziali cinguettii di convenienza, tra toni pacati e buonisti, tra fette di torta ” con mele e pere ” ed un mazzo di tulipani gialli presi apposta per l’occasione. Un tipico quadretto idilliaco intriso di convenevoli, fino a che la situazione non si ribalta completamente. In un graduale climax narrativo, ben presto lo spettatore vedrà rivelarsi l’autentica facciata di ognuno dei quattro coniugi, che si mostreranno per ciò che sono veramente: tristi ed intrappolati in soffocanti matrimoni; depressi, ottusi e deprevati, misogini ed arroganti, ubriaconi e superficiali. Insomma, veri modi di essere, che vengono descritti gradualmente nel corso del film: le irritanti telefonate di lavoro che puntualmente il signor Alan (Christoph Waltz) riceve, le critiche della petulante ed esasperante Penelope (Jodie Foster), impegnata in una battaglia per difendere i diritti dei bambini africani, suo marito Michael (John Reilly), che in principio sembrava il più ponderato e pacifico di tutti, ma che poi si mostrerà per la sua natura menefreghista, maleducata ed insofferente. Infine una Nancy (Kate Winslet) apparentemente perfetta, desiderosa di mantenere la temperanza e la buona educazione che le si addicono, salvando le apparenze anche di un marito poco partecipe, che si trasformerà in una temibile ed isterica ubriacona senza peli sulla lingua e letteralmente tendente a “vomitare” parole a sproposito.

Un breve film su cui riflettere insomma, anche dopo le numerose risate che ne derivano, a causa delle grottesche e comiche situazioni in cui i quattro si vanno ad impelagare. Perchè dietro l’apparente vena comica della pellicola si cela un’aspra critica della società odierna, abbrutita dalle convenzioni sociali e schiava del lavoro, intrappolata in gabbie e maschere d’occasione, create per proteggersi dalla “carneficina” del mondo esterno e dagli altri uomini, che finiscono con il provar gusto per questo sadico gioco verbale.
” Io credo nel Dio del Massacro, che governa incontrastato dalla notte dei tempi “, recita pateticamente il cinico Alan.
E’ così che ci siamo ridotti. A massacrarci a vicenda, provando piacere nelle debolezze altrui; o nel distruggere nevroticamente un mazzo di tulipani; o a gettare un cellulare in acqua o una borsa in aria, cercando di allentare la tensione con un bel bicchiere di whisky. Un massacro inutile insomma, che i bambini (causa apparente degli scontri verbali) hanno causato, ma che subito hanno risolto continuando a giocare, come si vede dall’ultima scena, unico esterno del film; che riprende comicamente anche il povero criceto, abbandonato dal signor Michael.
Assolutamente da vedere.

dadab.