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domenica 28 giugno 2015

Intervista a Roberto Minervini, regista che ha fatto della paura il suo coraggio.


“Vedo il cinema come militanza. Per me è una missione dar voce a questa gente invisibile, all’America sommersa”.


Roberto Minervini, regista marchigiano tornato in patria dall’America, e reduce da Cannes, ha ricevuto una calorosa accoglienza, mostrando la sua ultima fatica cinematografica: “Louisiana (The Other Side)”all’anteprima del “Capodarco l’altro festival” (22-27 giugno 2015), il regista ci ha trascinato in una realtà antitetica alla nostra, fatta di esseri umani stanchi di essere ignorati e di un’America ben poco eroica.
Il film documentario racconta una storia di sopravvivenza in una comunità distrutta dalle metanfetamine. Lo sguardo di Minervini si astiene dal giudicare, egli osserva la realtà prendendo le giuste distanze, ma anche con una forte intensità ed affetto verso i personaggi sofferenti.
Tra spettatori e protagonisti si instaura così un rapporto intimo e privilegiato che permette di mostrare, forse per la prima volta sullo schermo, la tenerezza, il rispetto, la voglia di riscatto e la paura autentica di queste persone. C’è un amore profondo e straziante, complice e distante, che accompagna dolcemente immagini spiazzanti e brutali, però vere.
Ho discusso con Roberto di cinema, di politica, di futuro, e di come far sentire la propria voce in un mondo che finge di non sentire. Il messaggio è ottimistico e forte, e conoscerlo è stato un piacere, ecco quello che ci siamo detti:


Considerate le sue origini marchigiane, vorrei chiederle quanto c’è delle Marche in lei, e cosa le è rimasto di questa regione così bella ma anche purtroppo dimenticata.
“In me delle Marche c’è tanto. Una cosa è questa grossa frammentazione territoriale, culturale e di linguaggio. A 5 km di distanza si trovano altre realtà socio-economiche ma anche linguistiche, il dialetto cambia a pochissima distanza, quindi ci si sente frammentati e diversi, però allo stesso tempo si convive, ci si frequenta. In questo è rimasta la mia affinità nei confronti del diverso, ho un’assoluta tolleranza verso tutto ciò che varia da me. I miei standard sono flessibili, ci convivo.”



In Louisiana (The Other Side) lei parla di una comunità emarginata, nascosta agli occhi del resto del mondo, che vive in un’America piena di contraddizioni. Pensa che questo suo interesse per il diverso e il periferico sia scaturito dal suo esser nato a sua volta nella provincia marchigiana?
“Si, assolutamente. Io sono delle Marche calzaturiere, Monte Urano, quindi delle Marche dure dove i cicli economici altalenanti si sentivano, dove ho visto e assistito alla ricchezza, a giovani che a quattordici anni avevano già soldi in tasca, molti giocavano d’azzardo e si drogavano, oppure si creavano un futuro, erano altri tempi. Ho visto gente perdere il lavoro, affrontando i cicli di bassa dell’economia, e non trovarlo più.
Delle Marche mi è rimasta anche quell’umiltà, quello stoicismo. Il marchigiano si dice, è stoico, e al tempo stesso umile e riservato. E questo lo ritrovo adesso in certi ambienti. Inoltre il marchigiano lavora sodo, ma non si gode molto la vita. L’interesse per il diverso l’ho sviluppato così: nelle Marche si stava in territori e comunità molto piccole, e si conviveva tutti, a prescindere dai ceti economici.”

Louisiana è il suo film più politico. Si parla soprattutto della rabbia dei protagonisti nei confronti delle istituzioni che li hanno dimenticati. Lei pensa ci siano similitudini con la situazione politica italiana? Cosa si può realmente fare, sia da noi sia in America, per dar voce a queste minoranze dimenticate e provinciali?
“In America esiste di recente un fenomeno che in Italia conosciamo da tanto tempo: la politica ostruzionistica delle opposizioni, va sempre a scapito del cittadino. Ci trovo una crescente assenza delle istituzioni, quindi politica, sul territorio. Questo accomuna l’America all’Italia e, ahimè, anche la politica di complotto e corruzione che ritrovo purtroppo adesso anche in America. In America forse il problema più importante è l’accentramento dei media intorno ai governi, e quindi la conseguente manipolazione o occultamento delle informazioni.
Penso che il cambiamento debba partire dal basso, dal territorio, dalla gente, non top-down dalle istituzioni. In entrambi i paesi non esiste mobilità sociale, soprattutto in Italia con la tassazione alta la gente non sopravvive, sono due realtà molto difficili da questo punto di vista.”

In questo film lei mostra quella che è stata definita “L’altra faccia dell’America, di una società che si sente straniera nel proprio paese. “I suoi documentari” – citando il critico Goffredo Fofi – “propongono esempi di vera vita americana nel bene e nel male, quella che Hollywood non narra più da tempo.” Come mai questa scelta così estrema e coraggiosa, e se vogliamo anche controcorrente? Non molti registi amano prendersi questo rischio.
“Un po’ perché vedo il cinema quasi come militanza. Io avevo e continuo ad avere l’opportunità di dar voce all’America sommersa, perché io vivo in quei territori, a stretto contatto con questa gente invisibile. E per me è una missione andare a raccontare ciò che i media e Hollywood  in primis hanno occultato. A me piace essere in prima linea, a volte la vita me la complico. Mi piace molto lavorare con temi difficili.”


Immagine tratta dal film Louisiana (the other side)

In America il film uscirà?
“Sì, ci sono già delle offerte di distribuzione. A conferma del fatto che c’è gente che vuole far emergere la faccia della vera America. Sapevo di non essere da solo lì, sapevo che il mio lavoro sarebbe stato voluto anche dagli americani, non dall’America istituzionale ma sicuramente dai cittadini. C’è anche da dire che io non avrei potuto fare il film senza l’appoggio delle istituzioni italiane e anche di quelle francesi. Io giro in America ma continuo ad essere un autore italiano. La mia non è una co-produzione americana, gli americani non finanzierebbero mai qualcosa che possa arrivare ad essere controproducente per la loro immagine. Ho avuto comunque molto supporto dall’Italia.”

Secondo lei c’è del potenziale nel panorama cinematografico italiano attuale?
“Io penso che il cinema italiano sia molto dinamico in questo momento, c’è una scena molto rigorosa di autori di qualità e di voci indipendenti. C’è Gianfranco Rosi, documentarista, giramondo anche lui, che va alla ricerca di storie occulte. C’è Michelangelo Frammartino con il film Le quattro volte, un autore concettuale, molto sofisticato. C’è Pietro Marcello, forse il più autoriale di tutti, che fa delle ricerche sul territorio con una voce molto singolare, unica. Poi ce ne sono altri come Leonardo di Costanzo, Salvatore Mereo. Penso che in questo momento c’è molta vivacità in Italia.”

Un modello del passato da cui trai ispirazione?
“È difficile per me rispondere a questa domanda perché a priori non mi ispiro a nessuno, né dal punto di vista tecnico né formale, ideologico o concettuale. Però molti registi sono in me, quindi a posteriori poi riesco ad intravedere quelle influenze. Ci sono i grandi registi del cinema marginale brasiliano degli anni ’60, i nomi non sono noti ai più, che lavoravano in condizioni politiche difficilissime, facendo lavori provocatori e anche molto personali.
Ci sono figure del neorealismo italiano, Rossellini fra tutti. Ci sono i giapponesi degli anni ’60,’70. Sicuramente tendo verso un cinema di rottura. Per esempio Rossellini è nel mio cuore non tanto per le opere realizzate, quanto per la storia che c’è dietro di lui. Il solo fatto che fece Roma città aperta quasi in condizioni di segretezza, durante la guerra e rischiando la propria pelle. A quei tempi il suo lavoro era un linguaggio completamente rivoluzionario, tra l’altro con un’attrice che secondo i canoni di bellezza del tempo non era bella, come Anna Magnani. Quindi lui creò una rottura, il cinema di rottura così come l’arte di rottura mi attrae, mi affascina.”

Adesso invece è più difficile creare una rottura, una rivoluzione di questa portata. Tempi in cui l’omologazione sta distruggendo la creatività.
“L’omologazione più pericolosa è quella di storie, piuttosto che di forma. Per raccontare di approcci ce ne sono tanti, però vedo delle storie che si ripetono. C’è chi guarda dentro racconti prefabbricati, che parlano di famiglie, rapporti tra genitori e figli con redenzioni finali. Penso che c’è tanta gente che non ha assolutamente niente da dire. Il problema è quello, non aver niente da dire, piuttosto che non saper raccontare storie nuove. Io personalmente me ne accorgo subito quando qualcuno non è mai uscito dal seminato o non ha visto il mondo, basta vedere un film per accorgersene, come i film in cui ci si perde per ritrovare se stessi, queste cose sono celebrali, non emotive. Questa gente che non ha vissuto, non ha niente da dire.
Per fare cinema bisogna mettersi un po’ più in gioco, sennò può diventare troppo borghese. Oggi c’è un’agghiacciante sproporzione tra cinema commerciale e quello autoriale, quest’ultimo sopravvive ormai solo nei festival o in qualche sala specializzata. Quindi il gap è grande e la tragedia è che c’è un modo borghese di vedere il cinema, tale per cui quando il cinema autoriale si presenta, spesso si attacca l’autore, lo si accusa di sensazionalismo, di provocazione, quando invece la provocazione è normale. E il problema è che quando il 99,9% è cinema di intrattenimento allora, quello è sintomatico della condizione socio-culturale di un paese, è agghiacciante.”


Nel suo film c’è un po’ di neorealismo e un po’ di Antonioni. Le piace questo regista?
“Certo che mi piace, non lo cito tra le ispirazioni, ma è nel mio bagaglio culturale. Non è un’ispirazione diretta, o forse lo è chissà, non me ne accorgo neanche. Ma fa parte di me, come tanti altri. Di cinema ne ho visto tanto, di quello nuovo non ne vedo molto, per questo continuo a guardare a ritroso.”

Un’ultima domanda. Cosa consigli ai giovani che vogliono intraprendere una carriera nel cinema?
“Posso solo dire quello che dicevo a degli studenti: possibilmente all’inizio non lavorate nel cinema, fate un altro lavoro. Separate la fonte di introiti e l’outlet creativo, perché se dall’inizio c’è una commistione delle due poi si finisce per preoccuparsene, l’uno influenza l’altro. Quindi vedere il cinema come fonte di guadagno crea un terreno non fertile per far sì che cresca una visione indipendente, autoriale. Per chi cerca il cinema d’autore forse è meglio separare le due cose, è necessario vivere sulla propria pelle la frustrazione del doversi dividere. Poi alla fine le cose si aggiustano, bisogna aver fiducia. Le esperienze poi convergono. Io non ho mai fatto assistente alla regia o montaggio, mi sono sempre rifiutato, ho fatto altri lavori, lasciando il cinema unicamente come passione. Oggi potrei guadagnarci, potrei vivere di cinema ma comunque non lo farò. Non sono pronto per far sì che il cinema diventi la mia unica fonte di guadagno. Produrre un film con l’ansia di dover guadagnare mi bloccherebbe, mi tarperebbe le ali. Quindi ad un giovane consiglierei qualcosa di poco glamour, per il bene della creatività. Secondo me quella è la salvezza di un ragazzo o ragazza che voglia essere un vero autore. Fare cinema senza pensare al guadagno, il cinema è una cosa separata, è un’espressione artistica. Penso che così si possa lavorare con più serenità. Questa è la mia esperienza personale, e quella è la scelta migliore che possa aver mai fatto.”



Dafne Berdini

lunedì 22 giugno 2015

Jovanotti 'spaziale' fa impazzire il pubblico: è un fulmine a ciel sereno

foto di Galatea Berdini
Jovanotti debutta ad Ancona il 20 Giugno allo stadio del Conero, lanciando in tutta Italia il già celebre tour "Lorenzo negli stadi 2015 CC". Quest'anno l'eclettico artista ha dato il tutto per tutto, mettendo l'anima e il cuore in un'eroica impresa. Il risultato è sorprendente. Un concentrato di musica e di emozioni per la durata di ben due ore e mezzo. Cherubini si fa regista e performer, sfrecciando frenetico su un palco a forma di fulmine, facendosi fulmine lui stesso. Il musicista toscano non ha dubbi dicendo che il fulmine è legato ad un ricordo d'infanzia, quello del supereroe, è il simbolo dell'energia, della velocità e della modernità. E insieme una crepa, che dichiara fragilità. Il cantante in questo spettacolo veste i panni luccicanti del "supereroe di provincia", un uomo normale che ha condiviso i suoi superpoteri con altre 30.000 persone. 
foto di Benedetta Fofi
I suoi più grandi successi, da "penso positivo" a "l'ombelico del mondo", sono attraversati come saette dalle canzoni del nuovo album (sette brani). Ci è voluto un anno per realizzare questo progetto sperimentale ed avvenieristico: sopra il palco è piazzato uno schermo di 800 metri quadri, una gigantesca creatura che coinvolge le più svariate espressioni artistiche, che coesistono in un'unica melodia: la musica ovviamente, ma anche la pittura, l'animazione, e soprattutto il cinema. Dal cinema inizia, con un film della durata di 7 minuti, ambientata in una qualche lontana galassia, dove Jovanotti recita, venendo poi catapultato sul palco fasciato da un'argentata tuta spaziale. E con il cinema continua, c'è una collaborazione tra il cantautore toscano e il regista marchigiano Roberto Minervini. L'ultimo film del quale è stato appunto proiettato in una clip emozionante della durata di una canzone: "fango". Fango diventa così la colonna sonora di Louisiana (the other side), che indubbiamente ha colpito l'attenzione del cantante e la nostra.
clip dal film Louisiana (the other side) di Roberto Minervini
Ci sono altri personaggi di spettacolo, da Ornella Muti a Fiorello, a Ligabue, fino ad arrivare ai gorilla del National Geographic, ai fumetti, ai cartoni animati. Un sensazionale traguardo per il performer, che si è lasciato trasportare dalle emozioni, e commosso dall'affetto della folla in delirio, gli sono mancate le parole: "ragazzi, non cosa dirvi, posso solo darvi", ed infatti Jovanotti ha dato molto alla gente: ha dato scariche di energia, ritmo, parole, sensazioni, ma soprattutto gioia, piroette, festa, danza e sorprendenti (ed acclamati) salti nella folla scendendo giù nel prato dalla pista-fulmine. Assistendo allo spettacolo si è catapultati in un'altra dimensione, nello spazio appunto. 
foto di Galatea Berdini


I concerti di Jovanotti, da sempre, hanno il potere di rendere 'immortali' chi li attraversa. L'omonima canzone è stata scritta ispirandosi alla sensazione che si prova in quell'attimo finale, alla connessione immediata tra cantante e pubblico, come un colpo di fulmine.
Tra giochi di luci psichedeliche, assoli di chitarra e ritmi tribali, si assiste ad uno show strepitoso, il cui slogan sembra essere il titolo di una canzone del tour: "E non hai ancora visto niente". Perché è quello che succede prima di mettere piede in uno stadio in cui è allestito un concerto di Lorenzo Jovanotti.
foto di Sofia Berdini
Jovanotti tra i fan
foto di Benedetta Fofi


Dafne Berdini